Nell’epoca dei social, in cui l’apparenza spesso è di gran lunga la cosa più importante per quanto riguarda i feedback ricevuti, l’allenamento sportivo (che potremmo allargare chiamandolo in modo un po’ generale “fitness”) ha sicuramente i suoi punti critici.
Il fascino degli ideali: tra ego e benessere nell’allenamento sportivo
Se allenarmi significa rincorrere un ideale probabilmente irraggiungibile, di cui io per primo subisco il fascino ma di cui non sarò mai effettivamente soddisfatto, se tutti i miei sforzi sono rivolti a soddisfare un ego che si andrà inevitabilmente a gonfiare senza mai essere sazio, sto davvero facendo qualcosa di buono?
Sicuramente a questa domanda non è facile rispondere, come allo stesso tempo è chiaro che parta da una posizione tutt’altro che neutrale per come è formulata.
Certamente ci possono essere grossi problemi derivanti dall’esposizione al pubblico, sia nell’essere affossati, ignorati, ma anche nell’essere elogiati.
Il riscontro positivo da parte di altre persone può essere problematico tanto quanto quello negativo. Se nel fare qualcosa ricevo applausi e questo mi dà una gratificazione, molto probabilmente continuerò a fare quella cosa, spostando l’asticella sempre più in là per non annoiare chi deve battere le mani.
Performance sempre più al limite e fisici sempre più lontani dal comune, ci spingono a chiederci se siano stati il frutto di un naturale percorso di auto miglioramento o se invece siano il risultato di ossessioni malsane destinate a finire in modo poco piacevole. (se vuoi approfondire ti lascio qui un articolo)
Chiaramente la risposta è: dipende.
Non solo in questo senso va valutato il caso singolo, ma la riflessione che mi preme fare è ancora più a monte.
Se tutto ciò che faccio è rivolto al mio personalissimo miglioramento, sto facendo qualcosa di buono?
Al di là dei casi estremi, in cui sarà palese riconoscere il meccanismo, ovvero l’applausometro, che sta dietro alla soddisfazione di aver raggiunto un risultato con l’allenamento sportivo, credo che la cosa sia ben più sfaccettata.
Ricevere apprezzamento da altri per aver conseguito qualcosa di difficile non penso infastidirà nessuno. Tanto più se è qualcosa per cui si lavora molto, magari duramente e con costanza.
Il punto che spesso indica la linea di separazione tra un comportamento sano e uno no, è il rapporto causa-effetto tra questi due elementi. In quest’ottica, se sto lavorando su di me perché è ciò che voglio fare a prescindere e l’approvazione altrui è una conseguenza, sono chiaramente nel giusto, mentre fare qualcosa con lo scopo di ottenere ciò che dovrebbe solo essere un’eventualità non può che essere sbagliato.
Questa tesi è decisamente forte, non lo nego, e abbiamo molti esempi di come ci si possa letteralmente ammalare nel seguire un approccio che non ne tenga conto, cercando di spingersi dove non si dovrebbe per qualche like o cadendo in depressione se questi ci sono negati.
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Concentrarsi sul risultato o sul piacere di fare l’allenamento?
Certamente una lezione importante vorrebbe che non pensassimo tanto al risultato di quello che facciamo, ma che ci concentrassimo su ciò che stiamo effettivamente facendo. Questo significa che dovremmo pensare esclusivamente al processo anziché a ciò che ne deriva, in termini di miglioramento ottenuto o di riconoscimento esterno, come abbiamo approfondito in questo articolo del nostro blog.
Ma se è vero che questa sarebbe, senza dubbio, buona prassi, è anche vero che sarà sicuramente difficile rimanere consistenti e motivati in qualunque cosa se non vedo mai il frutto di ciò per cui sto lavorando.
E, parafrasando la domanda fatta qualche riga sopra, se ogni mio sforzo è solo rivolto ad accrescermi in qualche modo, sono un egomane?
Al di là della definizione, credo che qualunque sia la risposta a questa domanda, ciò non dovrebbe essere un problema. Non dico questo perché penso che essere rivolti esclusivamente al proprio orticello sia qualcosa di positivo, bensì credo che non si possa essere rivolti ad altro se i principali e sostanziali sforzi non vengono spesi per il proprio miglioramento. O, quantomeno, non lo si può essere in modo sano ed estendibile.
Come si può volere un mondo migliore senza pensare di essere partecipe di questo miglioramento? A chi serve che le cose vadano meglio, se io non sarò qui a godere dei frutti di questa prospettiva? Proviamo a ragionare per assurdo.
Facciamo finta che io sappia di avere un giorno di vita. Indipendentemente da come scelga di trascorrere il tempo che mi rimane è fuori discussione che non mi interesserà particolarmente cercare di sanare il problema del cambiamento climatico. E per buoni motivi, direi.
Ora, sappiamo tutti che il nostro tempo è limitato, e che molto probabilmente i problemi su vasta scala (come il cambiamento climatico appunto) sono così difficili da risolvere proprio perché non rappresentano (o meglio, non li percepiamo) come una minaccia immediata. Direi che da questo potremmo trarre la conclusione che perché qualcosa ci interessi davvero, dobbiamo esserne (o percepire di esserne) toccati.
Avanziamo, quindi, nel ragionamento e cerchiamo di trovare cosa c’è dall’altra parte di questo spettro.
Se da un lato il me più disinteressato ai fatti del mondo è quello che muore domani, quello che invece se ne interessa è quello con una buona prospettiva di vita davanti a sé e capace di vedersi e proiettarsi in quel tempo futuro. Se sapessi di avere una malattia terminale, che non mi ucciderà mai ma che mi costringerà a letto per il resto dei miei giorni, di nuovo non credo che il cambiamento climatico mi impensierirà troppo.
È solo nella condizione in cui sapessi di avere tanto tempo davanti a me, da usare nel modo in cui preferisco e in cui ho una prospettiva di maturazione, è qui che vorrò vedere un mondo che fiorisce assieme a me, e sarà mia personalissima preoccupazione cercare di risolverne i problemi.
Comprendere questo significa dare un peso del tutto diverso ad ogni atto di cura personale che rivolgiamo a noi stessi. Se posso pensare che quello che sto facendo oggi mi renderà in qualche modo migliore domani, allora non solo sto facendo qualcosa di buono perché universalizzando questa pratica si starebbe tutti meglio.
Sto facendo qualcosa di buono anche (forse soprattutto) perché mi sto ponendo nella condizione in cui mi sarà conveniente spendere parte delle mie energie per migliorare tutto ciò che ho attorno.
Concludendo
Infine, per tornare alla questione iniziale, certamente la strada e i motivi che ci spingono a intraprendere alcune scelte, specialmente nell’ambito del coltivare movimento, l’allenamento sportivo e quindi il corpo, possono essere segno di problematiche associate a come gestiamo la relazione “noi-ciò che facciamo-gli altri”.
Ma, per quanto complessa come dinamica, credo comunque possa essere meglio gestita se alleggerita di ogni tipo di problematicità che non sia utile.
Avere un ego è imprescindibile e non è di per sé un male, è l’unico modo per poter davvero tenere a ciò che ci circonda senza dover diventare eroi o martiri, entrambe figure che non dovrebbero avere posto in una società evoluta.
Invece che preoccuparci dei motivi che ci portano a voler essere qualcosa di meglio rispetto a ciò che siamo ora, faremmo meglio ad agire per esserlo davvero, per poter sinceramente desiderare un mondo che si evolva con noi e che ci consenta di esprimerci al massimo delle nostre possibilità.
Scritto da:
SEBASTIANO PEPE
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